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Fast Fashion – parte 2

La produzione di moda fast fashion contribuisce all’ inquinamento ambientale in quanto:

  • Rappresenta il 10% delle emissioni di carbonio mondiali
  • 85% di tessuti va in discarica ogni anno, aumentando i rifiuti
  • Lavare i vestiti rilascia ogni anno 500.000 tonnellate di microfibre nell’ oceano, l’equivalente di 50 miliardi di bottiglie di plastica
  • Molte di queste fibre sono poliestere, una plastica presente in circa il 60% degli indumenti. La produzione di poliestere rilascia da due a tre volte più emissioni di carbonio rispetto al cotone e il poliestere non si decompone nell’oceano.
  • Il 35% di tutte le microplastiche nell’oceano provengono dal riciclaggio di tessuti sintetici come il poliestere.

 

L’inquinamento però è solo uno dei problemi legati alla Fast Fashion, poiché è da valutare anche l’aspetto sociale della produzione di moda a basso costo: la produzione di moda avviene per lo più nei paesi in via di sviluppo con condizioni lavorative, igieniche e sociali, molto al di sotto della normalità e della legalità.

Infatti, l’industria fast fashion è più esposta al rischio di forme di schiavitù moderna, in particolare di donne e minori. I casi di sfruttamento riguardano tutta la filiera, dalla raccolta nei campi di cotone al confezionamento nei laboratori artigianali e nelle grandi fabbriche.

Un paese in via di sviluppo sfruttato per la sua manodopera a basso costo e considerato il secondo esportatore al mondo nel settore tessile, è il Bangladesh.

e ridurre le sue barriere commerciali nel 1975 per attirare investitori stranieri che alla fine

fabbriche di abbigliamento stabilite in tutto il paese (Ahmed, 2001)Tuttavia, questo ha portato allo sfruttamento sociale in quanto il lavoro in fabbrica è l’unico lavoro disponibile e consapevoli di ciò molti marchi fast fashion occidentali, in cooperazione con le élite locali, hanno avviato fabbriche d’abbigliamento con produzione a basso costo e alta produttività. Le donne e i bambini impiegati sono provenienti da famiglie con uno status socio-economico basso e pertanto considerati lavoratori non qualificati e non meritevoli di un giusto salario da parte delle aziende (vengono pagati non più di 20 centesimi l’ora per 20h al giorno, 7 giorni su 7).

Un caso eclatante è il disastro avvenuto nel 2013 a Dacca, la capitale, con il crollo del Rana Plaza, un edificio di otto piani che ha subito un cedimento strutturale dovuto al peso dei numerosi macchinari tessili. Hanno perso la vita 1.134 persone e secondo la ricostruzione dei fatti, i lavoratori, che producevano capi d’abbigliamento per i grandi marchi occidentali, erano stati costretti ad entrare in quell’edificio non sicuro sotto la minaccia di perdere il posto di lavoro e il salario.

Da quando è avvenuta questa tragedia, tutto il mondo ha scoperto il tema delle condizioni di lavoro degli operai tessili ed in questi 8 anni sono stati fatti numerosi ed importanti passi avanti grazie al Bangladesh Accord, che, con il rinnovo del 2021, prevede di mettere in sicurezza le fabbriche.

 

 

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Francesca Rizzi

Consulente Manageriale
& Sustainability Manager

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